di Vanina Gerardi
Compra pagine di giornali. Non certo per annunciare migliaia di assunzioni, ma per dare un messaggio chiaro a tutti. La strategia di Sergio Marchionne, numero uno di Fiat sfida ancora una volta i sindacati sullo scontro in atto circa la messa in mobilità per 19 operai, dopo la riammissione di altrettanti addetti voluta dalla Corte d’Appello di Roma. Un messaggio che suona come uno smacco ai sindacati e melina per gli operai, nella giornata in cui la commissione europea lancia Cars 2020. Mentre in borsa il titolo balla sotto gli studi degli analisti.
“Pomigliano. Escono auto italiane, entrano premi internazionali”. E’ questo lo slogan che il Lingotto ha utilizzato per pubblicizzare il premio “Automotive Lean Production 2012” assegnato allo stabilimento di Pomigliano. La coccarda è stata assegnata dalla commissione internazionale di esperti del settore auto, dopo aver analizzato e valutato oltre 700 impianti in più di 15 paesi.
Nello specifico Fiat dedica pubblicamente il premio a “tutte le donne e gli uomini che lavorano a Pomigliano, perché è merito loro se il gruppo è diventato un modello per tutte le fabbriche d’Europa”. Un modello che gli operai sperano venga portato a pieno regime con il piano di rilancio dei marchi di lusso annunciato lo scorso 31 ottobre.
Ma Fiat non ha soltanto gatte da pelare sul fronte aziendale. In borsa il titolo è precipitato ieri dopo un report di Deutsche Bank che taglia le stime del marchio italiano a 3 euro per azione. Secondo gli analisti della prima banca tedesca gli oltre 20 miliardi di euro di impieghi sul piano triennale 2012-4, assorbirebbe quasi tutta la cassa, creando difficoltà poi per ricomprare le minorities di Chrysler, fondamentali per arrivare all’obiettivo del 90% della casa americana. Il severo report di Deutsche Bank boccia il piano di Marchionne definendolo come il passaggio "dell'Ave Maria", cioè il lancio disperato che una squadra di football americano utilizza negli ultimi minuti per cercare il touchdown ed evitare di perdere.
Fiat, però, ha confermato che la cassa , e avrà, il denaro necessario per il piano e per le quote di Chrysler.Forse perché punta a una fetta di circa il 10%, di quei due miliardi di euro,
che la commissione europea ha messo sul piatto oggi. Una piano del vicepresidente della commissione Antonio Tajani chiamato Cars 2020, volto a investire sulla ricerca e lo sviluppo della tecnologia dell'auto verde e di quella elettrica, e sulle ristrutturazioni industriali.
Dietro il taglio, quindi, ci sarebbe di più. Per Alessandro Frigerio, responsabile azionario dei fondi RMJ sgr, in questa fase vale tutto. Il settore è così volatile che possono essere considerate valide tutte le analisi. Gli analisti di Intermonte, insieme agli esperti di Mediobanca, Goldman Sachs, Natixis e Equita concordano sui rischi che Fiat possa rimanere a corto di denaro in cassa, e stilano giudizi che vanno dall’essere neutri a raccomandare di vendere il titolo nel medio termine. Anche se non sfugge il commento di Intemonte che con tutta probabilità la bocciatura da parte di Deutsche Bank ha anche una matrice conservatrice.
I due fronti non perdono occasione per trovarsi sempre su sponde opposte e litigare. Dalle discussioni in sede Acea tra Fiat e Volkswagen sulla revisione della sovracapacità produttiva dei marchi europei, alla competizione sul mercato brasiliano dove Volkswagen è in pole position, presente dal 1953, conta di rafforzare i suoi quattro stabilimenti. Non solo: la lotta sarebbe a piani più alti, andando a toccare quello tra Mario Draghi, italiano e presidente della Bce, e la Bundestag, la banca centrale tedesca. I due non si erano trovati d’accordo sulla decisione di emettere bond europei illimitati per calmierare la crisi di liquidità che attanaglia le nazioni dell’eurozona.
venerdì 9 novembre 2012
Cercare lavoro nelle fiere virtuali
di Filippo Mei
Come si fa a trovare lavoro? (e in particolare uno legato al proprio percorso di studi)?". Per rispondere a questa domanda forse non basterebbe un libro, però proviamo ad elencare alcune delle possibili strade: si può portare a mano il proprio curriculum nelle varie aziende e organizzazioni cui si è interessati, ma ormai è forse una via obsoleta; si può allora provare ad inviare il proprio curriculum tramite e-mail sfruttando il grande sviluppo del mondo digitale.
Oppure si può, soprattutto qui nel Regno Unito, andare alle cosiddette "Jobs Fair" o "Careers Fair" o "Graduate Fair", cioè le fiere "del lavoro", "delle carriere" o "dei laureati". Credo che eventi simili ci siano anche in Italia, ma che siano molto meno grandi, frequenti e pubblicizzati. Qui ogni grande città, da Londra a Manchester, passando per Birmingham, ne ha almeno una per semestre, cui poi si aggiungono quelle organizzate dalle varie università, spesso però più specificatamente rivolte a particolari settori, come la "Engineering, Science and Technology Fair" dell'Università di Manchester.
Quasi sempre poi queste fiere sono sponsorizzate da siti sui quali vengono quotidianamente linkate delle nuove opportunità di lavoro, alle quali si può inviare la propria "application" direttamente dal sito stesso. Inoltre, vengono usati enormi spazi per ospitarle, come l'Olympia Exhibition Centre di Kensington, a Londra.
All'interno di queste fiere vengono allestiti decine di stand. Questi si possono dividere in tre categorie: quelli dei siti citati sopra che cercano di attrarre nuovi iscritti alle loro newsletter; quelli delle università che offrono corsi e masters per coloro che si sono appena laureati (e magari sono indecisi); e infine quelli di grandi aziende, come ad esempio la Ibm, che assumono nuovo personale solitamente attraverso i cosiddetti "Graduate Schemes" e cioè dei programmi specifici per inserire neolaureati nella compagnia.
E, sarà per la crisi, o magari è solo una coincidenza, ma quest'anno la "Graduate Fair" di Londra era davvero piena. E' stata organizzata il 16 ottobre nel Business Design Centre, in una stradina subito fuori dalla stazione di Angel, nel quartiere Nord di Islington: è stato impressionante arrivare lì convinti di entrare subito e invece averci messo quasi un'ora dopo essersi accodati alla fila che partiva dalla via principale.
Ma, tra il 5 novembre e l'8 novembre, va in onda una fiera molto particolare. Si chiama Gradu8 e, organizzata per la prima volta circa cinque anni fa, segue perfettamente la via dell'informatizzazione che ormai ha preso il sopravvento nella vita comune di Londra: nella capitale inglese, volendo, si potrebbe trascorrere tutta la vita a casa senza un telefono, ordinando del cibo a domicilio su internet, sia dal supermercato più lussuoso che da quello più economico, e magari lavorando direttamente da casa in rete.
Comunque, la particolarità di questa fiera è proprio che chi è interessato non deve magari prendere il treno da Birmingham per arrivare a Londra, ma può parteciparvi direttamente dalla scrivania della propria stanza. Fondamentalmente gli "exhibitors", e cioè coloro che avrebbero uno stand in una rappresentazione fisica e non virtuale, organizzano in determinati orari, che si possono trovare sul sito, delle live chat: qui parlano direttamente con gli interessati delle opportunità di lavoro che offrono, delle qualità che devono avere gli aspiranti impiegati o del voto minimo di laurea che devono avere ottenuto.
Ci sono poi i "seminars", che, sempre in una rappresentazione fisica, corrisponderebbero a delle conferenze: viene scelto un argomento, come ad esempio "come far risaltare la propria appication rispetto alle altre" e si costruisce un dibattito attorno a questo. A gestirlo sono un moderatore del sito e una persona che lavora per uno degli"exhibitors", meglio se neolaureata assunta tramite "Graduate Schemes" e quindi in grado sia di capire che di dare consigli più efficaci a coloro che adesso sono nella condizione in cui era fino a poco tempo fa.
Infine, l'ultima particolarità è il fatto che, iscrivendoti via mail, puoi decidere di farti inviare i "reminders" (avvisi) della sessione di live chat o del "seminar" che ti interessano decidendo se farteli inviare il giorno prima, un'ora prima o un quarto d'ora prima. Tutto questo per evitare di dover magari attraversare cinquanta stands di cui non ti importa nulla o che non sono compatibili con i tuoi studi per arrivare direttamente all'unico che ti interessa. Comodo, no?
Come si fa a trovare lavoro? (e in particolare uno legato al proprio percorso di studi)?". Per rispondere a questa domanda forse non basterebbe un libro, però proviamo ad elencare alcune delle possibili strade: si può portare a mano il proprio curriculum nelle varie aziende e organizzazioni cui si è interessati, ma ormai è forse una via obsoleta; si può allora provare ad inviare il proprio curriculum tramite e-mail sfruttando il grande sviluppo del mondo digitale.
Oppure si può, soprattutto qui nel Regno Unito, andare alle cosiddette "Jobs Fair" o "Careers Fair" o "Graduate Fair", cioè le fiere "del lavoro", "delle carriere" o "dei laureati". Credo che eventi simili ci siano anche in Italia, ma che siano molto meno grandi, frequenti e pubblicizzati. Qui ogni grande città, da Londra a Manchester, passando per Birmingham, ne ha almeno una per semestre, cui poi si aggiungono quelle organizzate dalle varie università, spesso però più specificatamente rivolte a particolari settori, come la "Engineering, Science and Technology Fair" dell'Università di Manchester.
Quasi sempre poi queste fiere sono sponsorizzate da siti sui quali vengono quotidianamente linkate delle nuove opportunità di lavoro, alle quali si può inviare la propria "application" direttamente dal sito stesso. Inoltre, vengono usati enormi spazi per ospitarle, come l'Olympia Exhibition Centre di Kensington, a Londra.
All'interno di queste fiere vengono allestiti decine di stand. Questi si possono dividere in tre categorie: quelli dei siti citati sopra che cercano di attrarre nuovi iscritti alle loro newsletter; quelli delle università che offrono corsi e masters per coloro che si sono appena laureati (e magari sono indecisi); e infine quelli di grandi aziende, come ad esempio la Ibm, che assumono nuovo personale solitamente attraverso i cosiddetti "Graduate Schemes" e cioè dei programmi specifici per inserire neolaureati nella compagnia.
E, sarà per la crisi, o magari è solo una coincidenza, ma quest'anno la "Graduate Fair" di Londra era davvero piena. E' stata organizzata il 16 ottobre nel Business Design Centre, in una stradina subito fuori dalla stazione di Angel, nel quartiere Nord di Islington: è stato impressionante arrivare lì convinti di entrare subito e invece averci messo quasi un'ora dopo essersi accodati alla fila che partiva dalla via principale.
Ma, tra il 5 novembre e l'8 novembre, va in onda una fiera molto particolare. Si chiama Gradu8 e, organizzata per la prima volta circa cinque anni fa, segue perfettamente la via dell'informatizzazione che ormai ha preso il sopravvento nella vita comune di Londra: nella capitale inglese, volendo, si potrebbe trascorrere tutta la vita a casa senza un telefono, ordinando del cibo a domicilio su internet, sia dal supermercato più lussuoso che da quello più economico, e magari lavorando direttamente da casa in rete.
Comunque, la particolarità di questa fiera è proprio che chi è interessato non deve magari prendere il treno da Birmingham per arrivare a Londra, ma può parteciparvi direttamente dalla scrivania della propria stanza. Fondamentalmente gli "exhibitors", e cioè coloro che avrebbero uno stand in una rappresentazione fisica e non virtuale, organizzano in determinati orari, che si possono trovare sul sito, delle live chat: qui parlano direttamente con gli interessati delle opportunità di lavoro che offrono, delle qualità che devono avere gli aspiranti impiegati o del voto minimo di laurea che devono avere ottenuto.
Ci sono poi i "seminars", che, sempre in una rappresentazione fisica, corrisponderebbero a delle conferenze: viene scelto un argomento, come ad esempio "come far risaltare la propria appication rispetto alle altre" e si costruisce un dibattito attorno a questo. A gestirlo sono un moderatore del sito e una persona che lavora per uno degli"exhibitors", meglio se neolaureata assunta tramite "Graduate Schemes" e quindi in grado sia di capire che di dare consigli più efficaci a coloro che adesso sono nella condizione in cui era fino a poco tempo fa.
Infine, l'ultima particolarità è il fatto che, iscrivendoti via mail, puoi decidere di farti inviare i "reminders" (avvisi) della sessione di live chat o del "seminar" che ti interessano decidendo se farteli inviare il giorno prima, un'ora prima o un quarto d'ora prima. Tutto questo per evitare di dover magari attraversare cinquanta stands di cui non ti importa nulla o che non sono compatibili con i tuoi studi per arrivare direttamente all'unico che ti interessa. Comodo, no?
sabato 14 aprile 2012
BILANCIO DI UN VIAGGIO NELLE CITTA'
Segni di fiducia malgrado tutto
In quasi tutte le città, l'azienda con più dipendenti è il Comune. Quasi tutte sono candidate l'una contro l'altra a capitale della cultura europea per il 2019, o a patrimonio mondiale dell'Unesco (quando non lo sono già). Le procure che indagano su politica e affari hanno una gran mole di lavoro, nel Sud clientelare come nel Nord leghista. I gruppi industriali quasi ovunque cercano di alleggerirsi anziché crescere. Eppure è possibile uscire da un lungo viaggio in Italia convinti che il Paese in qualche modo tenga, resista, e per alcuni versi sia più unito di prima, pronto a ripartire.
Certo, i segni della crisi sono evidenti. A cominciare dalla proliferazione delle insegne «compro oro» (una sorta di simbolo dell'Italia di oggi) e «tutto a un euro», delle slot machine, delle pizzerie al taglio dove talora anche nei quartieri borghesi si compra la cena per tutta la famiglia. E il segno più doloroso dell'impoverimento è il degrado dei rapporti umani, il diradarsi di quelle relazioni che rendevano bello e allegro vivere nei centri storici, oggi splendidamente recuperati ma meno abitati di un tempo: molti ristoranti sono pieni di televisori accesi, molti centri commerciali tengono la musica a tutto volume, come a disincentivare la comunicazione tra le persone. L'Italia appare un Paese di cattivo umore. Impaurito dal futuro, spaventato all'idea di spendere e investire, come conferma il dossier Eurisko.
Eppure il tessuto sociale tiene. C'è un'Italia che resiste. Il patrimonio di ricchezza privata resta imponente, e andrebbe (almeno in parte) messo a frutto. Il potenziale turistico rimane talvolta inespresso; anche perché, grazie agli investimenti pubblici e privati di questi anni, le nostre città non sono mai state così belle. Forse le prospettive future dipendono anche dal modo in cui pensiamo l'Italia. Tendiamo ad esempio a concentrare l'attenzione sulla dorsale tirrenica, dove ci sono le grandi città tra cui quelle impoverite dal declino dell'industria statale, come Genova e Napoli; e dimentichiamo la dorsale adriatica, da Trieste tornata centro geografico d'Europa ai cantieri di Venezia, dal miracolo rinnovato dei romagnoli che riescono a vendere - ieri ai tedeschi oggi ai russi - un mare non bellissimo al fervore dei marchigiani, sino alla vitalità della Puglia (che non è solo vizio e corruzione) e alla resistenza dell'Abruzzo.
È vero che il Paese rischia di diventare meno multicentrico di un tempo: le banche locali sono finite quasi tutte a Milano, l'impasse del federalismo riporta i centri decisionali a Roma. Ma nessuna nazione al mondo ha così tante città forti di una propria storia, una propria identità, una propria specificità (non a caso i sindaci, pur con i loro problemi, non sono stati travolti dal discredito generale dei partiti). È sempre stato così; ma in un mondo globale, che diventa sempre più uniforme, questa è una ricchezza ancora non del tutto valorizzata. L'importante è essere consapevoli di chi siamo; e ricordarcelo anche nell'ora più difficile.
Aldo Cazzullo
14 aprile 2012
In quasi tutte le città, l'azienda con più dipendenti è il Comune. Quasi tutte sono candidate l'una contro l'altra a capitale della cultura europea per il 2019, o a patrimonio mondiale dell'Unesco (quando non lo sono già). Le procure che indagano su politica e affari hanno una gran mole di lavoro, nel Sud clientelare come nel Nord leghista. I gruppi industriali quasi ovunque cercano di alleggerirsi anziché crescere. Eppure è possibile uscire da un lungo viaggio in Italia convinti che il Paese in qualche modo tenga, resista, e per alcuni versi sia più unito di prima, pronto a ripartire.
Certo, i segni della crisi sono evidenti. A cominciare dalla proliferazione delle insegne «compro oro» (una sorta di simbolo dell'Italia di oggi) e «tutto a un euro», delle slot machine, delle pizzerie al taglio dove talora anche nei quartieri borghesi si compra la cena per tutta la famiglia. E il segno più doloroso dell'impoverimento è il degrado dei rapporti umani, il diradarsi di quelle relazioni che rendevano bello e allegro vivere nei centri storici, oggi splendidamente recuperati ma meno abitati di un tempo: molti ristoranti sono pieni di televisori accesi, molti centri commerciali tengono la musica a tutto volume, come a disincentivare la comunicazione tra le persone. L'Italia appare un Paese di cattivo umore. Impaurito dal futuro, spaventato all'idea di spendere e investire, come conferma il dossier Eurisko.
Eppure il tessuto sociale tiene. C'è un'Italia che resiste. Il patrimonio di ricchezza privata resta imponente, e andrebbe (almeno in parte) messo a frutto. Il potenziale turistico rimane talvolta inespresso; anche perché, grazie agli investimenti pubblici e privati di questi anni, le nostre città non sono mai state così belle. Forse le prospettive future dipendono anche dal modo in cui pensiamo l'Italia. Tendiamo ad esempio a concentrare l'attenzione sulla dorsale tirrenica, dove ci sono le grandi città tra cui quelle impoverite dal declino dell'industria statale, come Genova e Napoli; e dimentichiamo la dorsale adriatica, da Trieste tornata centro geografico d'Europa ai cantieri di Venezia, dal miracolo rinnovato dei romagnoli che riescono a vendere - ieri ai tedeschi oggi ai russi - un mare non bellissimo al fervore dei marchigiani, sino alla vitalità della Puglia (che non è solo vizio e corruzione) e alla resistenza dell'Abruzzo.
È vero che il Paese rischia di diventare meno multicentrico di un tempo: le banche locali sono finite quasi tutte a Milano, l'impasse del federalismo riporta i centri decisionali a Roma. Ma nessuna nazione al mondo ha così tante città forti di una propria storia, una propria identità, una propria specificità (non a caso i sindaci, pur con i loro problemi, non sono stati travolti dal discredito generale dei partiti). È sempre stato così; ma in un mondo globale, che diventa sempre più uniforme, questa è una ricchezza ancora non del tutto valorizzata. L'importante è essere consapevoli di chi siamo; e ricordarcelo anche nell'ora più difficile.
Aldo Cazzullo
14 aprile 2012
venerdì 13 aprile 2012
dal Corriere della sera
SOCIETÀ
Perché aumentano le diseguaglianze
Caro direttore, i dati sui salari diffusi da Eurostat hanno suscitato un'accesa discussione sulla performance italiana rispetto agli altri Paesi europei. Il dibattito ha fatto ombra ad un altro aspetto dello studio, recentemente certificato anche dall'Ocse: la crisi ha esacerbato un trend decennale di aumento della diseguaglianza. L'allargamento della forbice ha preso forme diverse. In alcuni Paesi, ad impoverirsi sono state le classi medie, mentre in altri (la Cina) sono stati i poverissimi. Ma ovunque la redistribuzione ha avvantaggiato i ricchi e soprattutto i ricchissimi. Ci sono ovviamente molti motivi di ordine etico e sociale per preoccuparsi di una società dove le diseguaglianze crescono in maniera costante. Ma questo crea problemi anche dal punto di vista dell'economia. La tendenza verso una maggiore disparità è come un movimento carsico, che negli scorsi decenni ha reso più fragili le nostre economie, causando l'accumularsi di squilibri globali: eccesso di risparmio in alcuni Paesi (Germania, Est asiatico), ed eccesso di domanda in alcuni altri (Stati Uniti, periferia della zona euro). Il trasferimento di risorse da poveri e classi medie, che spendevano in consumi la quasi totalità del proprio reddito, a quelle più agiate, che invece ne risparmiano una parte consistente, ha avuto due effetti: da un lato la riduzione della propensione media al consumo, e conseguentemente una tendenza al ristagno della domanda aggregata; dall'altro, l'aumento del risparmio che ha alimentato bolle speculative in serie.
Come si spiega tuttavia che lo stesso fenomeno, un aumento della diseguaglianza e la conseguente compressione della domanda aggregata, abbia portato in alcune zone ad eccessi di risparmio, e in altre ad eccessi di domanda? La risposta va ricercata nell'interazione di questa tendenza, comune a tutti i Paesi, con le differenze istituzionali, e con le risposte di politica economica che hanno invece preso forme estremamente diverse. Negli Usa la diminuzione del reddito è stata compensata dal ricorso all'indebitamento privato, favorito da un sistema finanziario sempre meno regolamentato. Conseguentemente la domanda aggregata (consumi e investimenti) è rimasta elevata, ma ad alimentarla era il debito e non i redditi. In Europa, regole più restrittive e politiche monetarie meno accomodanti hanno reso più difficile il ricorso all'indebitamento per famiglie e imprese, mentre i consumi pubblici erano vincolati da Maastricht e dal Patto di Stabilità; il risultato è stato un lungo periodo di crescita inferiore al potenziale. Per due decenni, la scelta è quindi stata tra la Scilla di una crescita drogata dal debito, e la Cariddi di un'economia stagnante o quasi.
Per ritornare a una crescita più bilanciata occorre incidere sulle cause profonde della crisi e cominciare a ridurre le diseguaglianze, invertendo la tendenza degli ultimi tre decenni. Si dovrebbe agire su più fronti: innanzitutto tornando a sistemi di tassazione più progressivi. In secondo luogo, a livello europeo, con un reale coordinamento delle politiche di tassazione, volto ad evitare la concorrenza fiscale, che sovente prendono la forma di forti riduzioni d'imposta sui redditi elevati. Occorrerebbe poi tornare a sviluppare il ruolo assicurativo dello stato sociale, con particolare attenzione agli ammortizzatori sociali. Infine, sarebbe auspicabile una rinnovata attenzione all'offerta di beni pubblici, in particolare quelli immateriali, come l'istruzione e la sanità. Nel loro insieme, queste misure ridurrebbero le diseguaglianze di reddito e di consumo, stabilizzando il ciclo economico e consentendo una crescita forse meno elevata, ma certamente più sostenibile ed equa.
Francesco Saraceno
12 aprile 2012 | 9:43
SOCIETÀ
Perché aumentano le diseguaglianze
Caro direttore, i dati sui salari diffusi da Eurostat hanno suscitato un'accesa discussione sulla performance italiana rispetto agli altri Paesi europei. Il dibattito ha fatto ombra ad un altro aspetto dello studio, recentemente certificato anche dall'Ocse: la crisi ha esacerbato un trend decennale di aumento della diseguaglianza. L'allargamento della forbice ha preso forme diverse. In alcuni Paesi, ad impoverirsi sono state le classi medie, mentre in altri (la Cina) sono stati i poverissimi. Ma ovunque la redistribuzione ha avvantaggiato i ricchi e soprattutto i ricchissimi. Ci sono ovviamente molti motivi di ordine etico e sociale per preoccuparsi di una società dove le diseguaglianze crescono in maniera costante. Ma questo crea problemi anche dal punto di vista dell'economia. La tendenza verso una maggiore disparità è come un movimento carsico, che negli scorsi decenni ha reso più fragili le nostre economie, causando l'accumularsi di squilibri globali: eccesso di risparmio in alcuni Paesi (Germania, Est asiatico), ed eccesso di domanda in alcuni altri (Stati Uniti, periferia della zona euro). Il trasferimento di risorse da poveri e classi medie, che spendevano in consumi la quasi totalità del proprio reddito, a quelle più agiate, che invece ne risparmiano una parte consistente, ha avuto due effetti: da un lato la riduzione della propensione media al consumo, e conseguentemente una tendenza al ristagno della domanda aggregata; dall'altro, l'aumento del risparmio che ha alimentato bolle speculative in serie.
Come si spiega tuttavia che lo stesso fenomeno, un aumento della diseguaglianza e la conseguente compressione della domanda aggregata, abbia portato in alcune zone ad eccessi di risparmio, e in altre ad eccessi di domanda? La risposta va ricercata nell'interazione di questa tendenza, comune a tutti i Paesi, con le differenze istituzionali, e con le risposte di politica economica che hanno invece preso forme estremamente diverse. Negli Usa la diminuzione del reddito è stata compensata dal ricorso all'indebitamento privato, favorito da un sistema finanziario sempre meno regolamentato. Conseguentemente la domanda aggregata (consumi e investimenti) è rimasta elevata, ma ad alimentarla era il debito e non i redditi. In Europa, regole più restrittive e politiche monetarie meno accomodanti hanno reso più difficile il ricorso all'indebitamento per famiglie e imprese, mentre i consumi pubblici erano vincolati da Maastricht e dal Patto di Stabilità; il risultato è stato un lungo periodo di crescita inferiore al potenziale. Per due decenni, la scelta è quindi stata tra la Scilla di una crescita drogata dal debito, e la Cariddi di un'economia stagnante o quasi.
Per ritornare a una crescita più bilanciata occorre incidere sulle cause profonde della crisi e cominciare a ridurre le diseguaglianze, invertendo la tendenza degli ultimi tre decenni. Si dovrebbe agire su più fronti: innanzitutto tornando a sistemi di tassazione più progressivi. In secondo luogo, a livello europeo, con un reale coordinamento delle politiche di tassazione, volto ad evitare la concorrenza fiscale, che sovente prendono la forma di forti riduzioni d'imposta sui redditi elevati. Occorrerebbe poi tornare a sviluppare il ruolo assicurativo dello stato sociale, con particolare attenzione agli ammortizzatori sociali. Infine, sarebbe auspicabile una rinnovata attenzione all'offerta di beni pubblici, in particolare quelli immateriali, come l'istruzione e la sanità. Nel loro insieme, queste misure ridurrebbero le diseguaglianze di reddito e di consumo, stabilizzando il ciclo economico e consentendo una crescita forse meno elevata, ma certamente più sostenibile ed equa.
Francesco Saraceno
12 aprile 2012 | 9:43
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