sabato 14 aprile 2012

BILANCIO DI UN VIAGGIO NELLE CITTA'

Segni di fiducia malgrado tutto


In quasi tutte le città, l'azienda con più dipendenti è il Comune. Quasi tutte sono candidate l'una contro l'altra a capitale della cultura europea per il 2019, o a patrimonio mondiale dell'Unesco (quando non lo sono già). Le procure che indagano su politica e affari hanno una gran mole di lavoro, nel Sud clientelare come nel Nord leghista. I gruppi industriali quasi ovunque cercano di alleggerirsi anziché crescere. Eppure è possibile uscire da un lungo viaggio in Italia convinti che il Paese in qualche modo tenga, resista, e per alcuni versi sia più unito di prima, pronto a ripartire.

Certo, i segni della crisi sono evidenti. A cominciare dalla proliferazione delle insegne «compro oro» (una sorta di simbolo dell'Italia di oggi) e «tutto a un euro», delle slot machine, delle pizzerie al taglio dove talora anche nei quartieri borghesi si compra la cena per tutta la famiglia. E il segno più doloroso dell'impoverimento è il degrado dei rapporti umani, il diradarsi di quelle relazioni che rendevano bello e allegro vivere nei centri storici, oggi splendidamente recuperati ma meno abitati di un tempo: molti ristoranti sono pieni di televisori accesi, molti centri commerciali tengono la musica a tutto volume, come a disincentivare la comunicazione tra le persone. L'Italia appare un Paese di cattivo umore. Impaurito dal futuro, spaventato all'idea di spendere e investire, come conferma il dossier Eurisko.

Eppure il tessuto sociale tiene. C'è un'Italia che resiste. Il patrimonio di ricchezza privata resta imponente, e andrebbe (almeno in parte) messo a frutto. Il potenziale turistico rimane talvolta inespresso; anche perché, grazie agli investimenti pubblici e privati di questi anni, le nostre città non sono mai state così belle. Forse le prospettive future dipendono anche dal modo in cui pensiamo l'Italia. Tendiamo ad esempio a concentrare l'attenzione sulla dorsale tirrenica, dove ci sono le grandi città tra cui quelle impoverite dal declino dell'industria statale, come Genova e Napoli; e dimentichiamo la dorsale adriatica, da Trieste tornata centro geografico d'Europa ai cantieri di Venezia, dal miracolo rinnovato dei romagnoli che riescono a vendere - ieri ai tedeschi oggi ai russi - un mare non bellissimo al fervore dei marchigiani, sino alla vitalità della Puglia (che non è solo vizio e corruzione) e alla resistenza dell'Abruzzo.

È vero che il Paese rischia di diventare meno multicentrico di un tempo: le banche locali sono finite quasi tutte a Milano, l'impasse del federalismo riporta i centri decisionali a Roma. Ma nessuna nazione al mondo ha così tante città forti di una propria storia, una propria identità, una propria specificità (non a caso i sindaci, pur con i loro problemi, non sono stati travolti dal discredito generale dei partiti). È sempre stato così; ma in un mondo globale, che diventa sempre più uniforme, questa è una ricchezza ancora non del tutto valorizzata. L'importante è essere consapevoli di chi siamo; e ricordarcelo anche nell'ora più difficile.


Aldo Cazzullo

14 aprile 2012

venerdì 13 aprile 2012

dal Corriere della sera

SOCIETÀ

Perché aumentano le diseguaglianze


Caro direttore, i dati sui salari diffusi da Eurostat hanno suscitato un'accesa discussione sulla performance italiana rispetto agli altri Paesi europei. Il dibattito ha fatto ombra ad un altro aspetto dello studio, recentemente certificato anche dall'Ocse: la crisi ha esacerbato un trend decennale di aumento della diseguaglianza. L'allargamento della forbice ha preso forme diverse. In alcuni Paesi, ad impoverirsi sono state le classi medie, mentre in altri (la Cina) sono stati i poverissimi. Ma ovunque la redistribuzione ha avvantaggiato i ricchi e soprattutto i ricchissimi. Ci sono ovviamente molti motivi di ordine etico e sociale per preoccuparsi di una società dove le diseguaglianze crescono in maniera costante. Ma questo crea problemi anche dal punto di vista dell'economia. La tendenza verso una maggiore disparità è come un movimento carsico, che negli scorsi decenni ha reso più fragili le nostre economie, causando l'accumularsi di squilibri globali: eccesso di risparmio in alcuni Paesi (Germania, Est asiatico), ed eccesso di domanda in alcuni altri (Stati Uniti, periferia della zona euro). Il trasferimento di risorse da poveri e classi medie, che spendevano in consumi la quasi totalità del proprio reddito, a quelle più agiate, che invece ne risparmiano una parte consistente, ha avuto due effetti: da un lato la riduzione della propensione media al consumo, e conseguentemente una tendenza al ristagno della domanda aggregata; dall'altro, l'aumento del risparmio che ha alimentato bolle speculative in serie.

Come si spiega tuttavia che lo stesso fenomeno, un aumento della diseguaglianza e la conseguente compressione della domanda aggregata, abbia portato in alcune zone ad eccessi di risparmio, e in altre ad eccessi di domanda? La risposta va ricercata nell'interazione di questa tendenza, comune a tutti i Paesi, con le differenze istituzionali, e con le risposte di politica economica che hanno invece preso forme estremamente diverse. Negli Usa la diminuzione del reddito è stata compensata dal ricorso all'indebitamento privato, favorito da un sistema finanziario sempre meno regolamentato. Conseguentemente la domanda aggregata (consumi e investimenti) è rimasta elevata, ma ad alimentarla era il debito e non i redditi. In Europa, regole più restrittive e politiche monetarie meno accomodanti hanno reso più difficile il ricorso all'indebitamento per famiglie e imprese, mentre i consumi pubblici erano vincolati da Maastricht e dal Patto di Stabilità; il risultato è stato un lungo periodo di crescita inferiore al potenziale. Per due decenni, la scelta è quindi stata tra la Scilla di una crescita drogata dal debito, e la Cariddi di un'economia stagnante o quasi.

Per ritornare a una crescita più bilanciata occorre incidere sulle cause profonde della crisi e cominciare a ridurre le diseguaglianze, invertendo la tendenza degli ultimi tre decenni. Si dovrebbe agire su più fronti: innanzitutto tornando a sistemi di tassazione più progressivi. In secondo luogo, a livello europeo, con un reale coordinamento delle politiche di tassazione, volto ad evitare la concorrenza fiscale, che sovente prendono la forma di forti riduzioni d'imposta sui redditi elevati. Occorrerebbe poi tornare a sviluppare il ruolo assicurativo dello stato sociale, con particolare attenzione agli ammortizzatori sociali. Infine, sarebbe auspicabile una rinnovata attenzione all'offerta di beni pubblici, in particolare quelli immateriali, come l'istruzione e la sanità. Nel loro insieme, queste misure ridurrebbero le diseguaglianze di reddito e di consumo, stabilizzando il ciclo economico e consentendo una crescita forse meno elevata, ma certamente più sostenibile ed equa.

Francesco Saraceno
12 aprile 2012 | 9:43